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Il meccanismo di autoinduzione alle fake news

fake news
Photo by Markus Winkler
Oggi ospitiamo Andrea Barchiesi, uno dei massimi esperti in Italia di analisi e gestione della reputazione digitale.

Fondatore di Reputation Manager, principale Istituto italiano nell’analisi e gestione della reputazione online. Ha definito e declinato i fondamenti dell’Ingegneria Reputazionale®, una rigorosa metodologia per progettare, gestire, proteggere e ottimizzare l’identità digitale e la reputazione sul web di brand, aziende, professionisti, personaggi pubblici. Autore dei libri “La Tentazione dell’oblio” e “Web Intelligence e Psicolinguistica” (Franco Angeli, 2016 e 2013), è contributor del Corriere della Sera, dove cura un osservatorio mensile sulla reputazione dei Top Manager in Italia.

Prima del nuovo Coronavirus, l’ultima pandemia della storia risale a dieci anni fa, si trattava dell’influenza suina, diffusasi nel mondo tra il 2009 e il 2010, partita dal Messico e arrivata nel giro di due mesi in altri 80 Paesi. Come il Covid19 si trattava di un virus molto potente nell’immaginario delle persone, trattandosi di un’epidemia che si trasmetteva dal suino all’uomo e che causò degli effetti immediati anche sul piano economico: la vendita di carne suina crollò. «Ma la televisione la vedono tutti e i giornali li leggono in tanti – spiega in un’intervista del 2009 Roberto, titolare di una piccola macelleria– a forza di parlarne la gente dirotta i consumi su altre carni».

Nel 2009, dieci anni fa, si iniziavano appena ad utilizzare i social network, ma i meccanismi che regolano la percezione sono sempre gli stessi. Immaginiamo quindi cosa diventano oggi, completamente calati nel mondo della iper-connessione, amplificata dai social. Siamo di fronte alla prima pandemia social, un fenomeno del tutto nuovo, da studiare con attenzione. Gli indicatori di percezione sono fuori parametro, portando ad una polarizzazione dell’immaginario quasi totale. L’esplodere del fenomeno ha dato vita a una crisi multiforme che interseca importanti asset quali le istituzioni, i media, la scienza, il ruolo degli esperti e perfino dei non esperti che a vario titolo hanno sentito il bisogno di dire la loro, influenzando chi li segue.

Lo scenario davanti al quale ci troviamo è stato definito da alcuni “infodemia”, una situazione in cui informazioni sono esplose a un ritmo vertiginoso, mai sperimentato prima.

Basti pensare che nella prima settimana di emergenza (22-28 febbraio), per ogni caso reale riscontrato nel mondo vi sono stati in media 200 contenuti online che ne hanno parlato, mentre in Italia il rapporto è stato di 1 a 3000, quindici volte superiore. Un rapporto che nelle settimane successive, con l’esplodere dell’epidemia nel resto del mondo, si è invertito: a fine marzo, il rapporto tra contenuti online e contagi in Italia è sceso fino a 1 a 50, mentre nel resto del mondo ha raggiunto 1 a 650, iniziando a descrivere una curva che imitava quella iniziale italiana.

L’“infodemia” è stata poi caratterizzata da una produzione continua e fuori controllo di informazioni che hanno reiterato 24 ore su 24 lo stesso mix multiforme e disomogeneo di messaggi che sono allo stesso tempo veri e falsi: gli stessi dati, le stesse paure, le stesse minimizzazioni, le stesse raccomandazioni, gli stessi consigli a reti unificate tra giornali, tv, social, chat, in forma di testi, video, immagini, audio.

Tutto questo chiaramente denota un’emotività molto forte, molto vicina alla psicosi. È come se avessimo due tifoserie che immettono informazioni in un ecosistema che comincia a ribollire creando una circolarità psicotica. Quello che emerge in modo forte è che c’è una grande distanza tra realtà e percezione e la società è guidata dalla percezione, non dalla realtà.

Come si è arrivati a questo punto?

Per spiegare un fenomeno così complesso è utile far ricorso alla fisica. Esistono processi di autoinduzione in cui più fattori innescano una reazione circolare che cresce fino a divergere (in genere il sistema esplode, per essere chiari). La centrale di Cernobyl è saltata in questo modo. Le news hanno dato inizio alla reazione, TV e stampa le hanno giustamente riportate, i social media hanno cominciato a reagire stimolando ulteriori contenuti TV, la stampa ha alzato il tiro, i social di conseguenza hanno elevato la portata. Subentrano i talk, dapprima generalisti poi monotematici. La TV accresce ulteriormente lo spazio dedicato, accorre quindi la politica inserendo altra energia nel sistema. Nei social la polarizzazione sale a livelli mai misurati. Utenti scandiscono il bollettino medico ogni ora.

In un contesto ad altissima energia nascono incessantemente fake news.

Alcune cercano di dare corpo alle paure delle persone, altre invece sono delle strumentalizzazioni, anche di stampo politico. Notizie finte dai risvolti assolutamente concreti: supermercati svuotati, piazze deserte, metropolitane che viaggiano a vuoto. Amuchina più cara del caviale. Borse a picco. L’induzione circolare una volta scatenata è imprevedibile e spalanca le porte all’irrazionalità, a volte anche al ridicolo che si trasforma in grottesco: un meme ironico ha associato il virus alla nota marca di birra Corona, questo ha colpito l’azienda che è stata costretta a diramare una nota in cui spiega che non c’è legame tra la sua birra e il virus. Non è finita: la Constellation Brands Inc (l’azienda che produce la birra messicana nei 50 stati che compongono la federazione americana) ha perso l’8% alla borsa di New York in una settimana. Un dato che dovrebbe far riflettere sul potenziale distruttivo delle fake news virali.

Tantissime le segnalazioni in merito a contenuti di dubbia veridicità che circolavano sul web, ma anche nei gruppi Whatsapp sotto forma di audio. Uno dei più noti, il vocale in cui una voce femminile paventava la chiusura dei supermercati per un mese e invitava a fare più spesa possibile. Un allarme che, prima di rivelarsi del tutto infondato, ha spronato migliaia di persone a svuotare i supermercati in un weekend: sulla diffusione di quel vocale la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta. Ma non solo “scorte alimentari”: a scatenare il panico di molti genitori, è intervenuta anche la (finta) ordinanza del Ministero che annunciava la chiusura delle scuole in tutta Italia. Anche in questo caso, è stato necessario l’intervento del Ministero e della Polizia Postale, ma il danno era fatto e la diffusione della bufala inarrestabile. Oppure, ancora, le numerose notizie sugli animali domestici (con articoli che invitavano a disfarsene perché “portatori sani del virus”), le teorie del complotto anticinese o news sull’utilizzo di alcuni farmaci per curare i sintomi del Covid-19: tutte infondate e false.

Questo è un fenomeno di autoinduzione circolare. Tutto ciò porta ad uno scollamento enorme e chiaramente è la percezione che guida le nostre azioni, non la realtà.

Veniamo ad un punto chiave: l’autoinduzione circolare può essere fermata?

Sì, ma va spezzata la sua circolarità invertendo il segno di uno o più attori. In pratica bisogna agire sugli attori “controllabili”, in questo caso la Stampa e la TV. Questi ultimi sono tra i principali responsabili del livello raggiunto, soprattutto nella prima fase hanno cavalcato l’emotività in modo superficiale ignorando le possibili conseguenze. I media che hanno giocato sull’allarmismo parlando di “quarantena del Nord” e di “strage”, seminando il panico, hanno poi tentato di chiudere i cancelli con titoli rassicuranti e appelli alla calma. Peccando prima di eccesso di allarmismo poi, al contrario e solo dopo pochi giorni, di superficialità.

Questa infodemia in una fase oggettivamente molto critica, non fa altro che acuire paure, angoscia, timore per il futuro. “Il terreno è tutto, il microbo è nulla” confessò Pasteur, il padre della microbiologia, in punto di morte a un suo allievo. Fuor di metafora il problema più grande legato alle fake news in uno scenario ad altissima sensibilità come quello attuale, non è il grado di falsità del contenuto, né chi lo crea. Il problema è l’incremento esponenziale della sua condivisione, quanto terreno ha a disposizione per proliferare.


#Comeusciredallacrisi #ilcontributodellesperto #noicisiamo #fakenews

Un impatto sostenibile

Impatto sostenibile
Photo By Samuel Ferrara – Unsplash
Oggi pubblichiamo le considerazioni di Luigi Mastrobuono, Presidente di ItaliaCamp.

È stato direttore generale delle principali associazioni nazionali di categoria (Confcommercio, Confagricoltura, vice di Confindustria, segretario generale Unioncamere), AD delle fiere di Bologna e di Roma, sottosegretario di Stato e Capo di Gabinetto al Ministero dello Sviluppo Economico, consigliere in diverse società e attualmente Consigliere Delegato di Ispro.

Se non avevi messo su le gomme invernali, prendertela per il fatto che nevica indica soltanto che stai spostando la responsabilità che è tua su un altro soggetto.

È proprio ciò che avverrà, anzi sta cominciando ad avvenire in questo passaggio critico e drammatico del nostro Paese: in molti non avevamo le gomme da neve. Non le aveva il Paese nel suo complesso, il suo bilancio, la sua classe dirigente. Non le aveva un certo numero importante di aziende, non le avevano molte famiglie. La nevicata sarebbe arrivata lo stesso, certo, ma avremmo potuto attraversarla meglio.

Questa metafora la vorrei adottare per il principio di sostenibilità: qualunque crisi, e questa poi, costringe a valutare il suo impatto anche sotto tale profilo.

È stato sviluppato negli ultimi anni un concetto di sostenibilità misurato su definiti campi di azione: l’ambiente, il sociale, l’economia, il territorio, considerando spesso questa misurazione diversamente importante a seconda del campo su cui si agiva. Per alcune imprese prevale la sostenibilità ambientale, per altre quella economica. Per altre ancora responsabilità sociale vuol dire contraccambiare il contesto con azioni a favore di determinate platee di cittadini, o di associazioni, o di segmenti sociali.

Covid-19 ha spiazzato questo approccio: ha fatto vedere d’un colpo come sociale, ambiente, economia siano interdipendenti. Ma ha fatto di più: ha mostrato come il bilanciamento delle azioni in tema di sostenibilità è davvero difficile con gli strumenti che avevamo, cioè con le gomme estive. Difesa della salute pubblica e preservazione del contesto economico imprenditoriale sembrano in competizione, se non si sceglie un approccio innovativo di sostenibilità, più avanzato e integrato. Integrato con tecnologie e investimenti ad esempio, in grado di modificare i luoghi di lavoro e di usufruizione.

Le gomme invernali servono per governare l’auto nonostante le intemperie, non per stare in autorimessa ad attendere la primavera. Alla crisi ci dobbiamo andare dentro anche dal punto di vista delle soluzioni, e il dibattito non è se nazionalizzare il più possibile, se fare più debito e poi si vedrà. Il dibattito giusto riguarda come prendere decisioni che innovino le scelte imprenditoriali e sociali in nuove consapevolezze di ciò che è realmente sostenibile, applicando nuove soluzioni oggi possibili o almeno sperimentabili. Esempi? L’agricoltura di precisione, guidata dal digitale è una realtà concretizzabile, e il problema degli agricoltori specie in Italia è uscire dalla comfort zone del “si è sempre fatto così”.

È ora di un balzo deciso in avanti.

Una azione generale di edilizia urbana mirata a ristrutturare centri e periferie sarebbe la grande occasione di ripensare spazi e servizi a cominciare da quelli per i cittadini e le famiglie o per il commercio. La produzione manifatturiera può riprendere il tema 4.0 e creare filiere anche italiane che allarghino segmenti di produzione ai territori oggi meno avvantaggiati. L’infrastrutturazione del Paese, in primis la rete tecnologica non può perdere un giorno per raggiungere tutto il territorio con la capacità che serve ad una società digitalizzata, società su cui spiegare una azione formativa senza precedenti. Una ripartenza della scuola e dell’università su nuove basi educative che ragionino secondo logiche costituite da parametri classici e parametri digitali combinati, che insegnino a conoscere, valutare e decidere sulla base dei dati e delle conoscenze. Una pubblica amministrazione che faccia il più grande balzo in avanti mai visto nel servizio ai cittadini, a cominciare dalla completa informatizzazione della giustizia e dei servizi a imprese ed utenti. E si può continuare per ogni segmento produttivo, ragionando con nuovi schemi.

La commissione Colao metterà le gomme da neve al Paese? Io me lo auguro, potrebbe senza meno avere questa nuova visone di sostenibilità totale, di misurazione di impatto di ogni misura proposta (proposta o decisione? Non abbiamo ancora capito i suoi poteri in verità). Perché la sostenibilità ha un parametro per poter essere stimata e poi verificata: il suo impatto. Sapete, quello che spesso le relazioni tecniche di accompagnamento dei provvedimenti determinano a tavolino: “la misura creerà tot posti di lavoro” “la misura farà risparmiare tot milioni di euro”. Poi chissà come finisce.

No, l’impatto è una cosa seria, e va misurato con scientificità per fare le scelte giuste, sostenibili.

Un’ultima battuta: chi paga? Qui il discorso è aperto e in divenire specie sulle quantità. Ma è sicuro un fatto. L’Italia spenderà molto in questi mesi: il punto sarebbe spendere produttivamente. Una spesa è sostenibile se poi torna indietro con gli interessi, in termini diretti o indiretti, se ha un impatto con il segno più. Ecco, dato che in parte pagheranno i cittadini, in gran parte il Paese farà debiti, in parte aiuterà l’Europa, fare spesa sostenibile sarebbe decisivo.


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Il futuro dell’engagament non ha vie di mezzo: “fuggire o combattere?”

Alba
Photo By Pablo Heimplatz – Unsplash
Ospitiamo oggi con piacere il contributo di Massimo Benedetti, esperto di engagement e Coach umanista

Il dopo quarantena presenterà una grande opportunità. Decidere se continuare a “far finta” di motivare le persone o passare a una loro autentica valorizzazione.

La bomba COVID 19 è esplosa! Visti i bassi indici di mortalità, più che sulla nostra salute gli effetti devastanti arriveranno sulla nostra economia. I problemi saranno tanti ed è inutile elencarli tutti. Tuttavia come coach umanista, come uomo di comunicazione e come inguaribile ottimista, dopo la tempesta, preferisco pensare alle opportunità e a nuovi obiettivi. Sento nell’aria la voglia di vivere e di rilanciare le nostre vite personali e professionali.

Senza dubbio, quello che stiamo vivendo è un fatto senza precedenti per la nostra generazione. La Pandemia disegna punti interrogativi nel cielo. E se la paura costringe a fuggire o a combattere io dico scegliamo la seconda via. Ma cosa c’entra tutto questo con l’engagement? C’entra, c’entra. Fuggire è rimanere nelle “pratiche” precedenti cioè trascurare nei fatti la motivazione delle Risorse Umane, pensando solo al contenimento dei costi, combattere è invece buttare il cuore oltre l’ostacolo e passare all’azione. Combattere è cambiare nel profondo la cultura e andare verso un nuovo Umanesimo anche in azienda. Ascoltare, valorizzare e coinvolgere dovrebbero essere le parole chiave.

Facciamo un passo indietro: dopo 30 anni di “incursioni” nelle realtà aziendali di tutte le dimensioni mi sento di affermare che la famosa frase “il capitale umano è il capitale più importante dell’azienda” è troppo spesso una grande ipocrisia. Fatta eccezione per alcune grandi multinazionali (pre-globalizzazione e pre-internet), dal “dopo-caduta-delle-torri-gemelle” l’attenzione alle Risorse Umane è entrata in una specie di grande ombra “schiarita” da tentativi “tattici” come il cosiddetto welfare.

Dopo l’11 Settembre e, soprattutto, dopo la crisi finanziaria del 2008 il contenimento dei costi ha colpito sempre di più il capitale umano. Ma come? Non era quello più importante? La riduzione degli organici, qualche volta necessaria, costringe le persone a lavorare anche per quelli che hanno lasciato l’azienda. Stager e precari, lavoratori a tempo determinato ruotano velocemente e la qualità finale peggiora. Non credo che la competitività si sviluppi solo con le leve finanziarie e con la riduzione dei costi, bisogna anche e soprattutto puntare a produttività accoppiata alla qualità. Sono le persone che sviluppano la produttività e la qualità: da chi fa ricerca sui nuovi prodotti fino all’ultimo operaio della catena che assicura gli standard desiderati, non fa scarti e risolve gli intoppi della linea.

Tornando alla crisi post Covid 19 penso che le aziende si divideranno in due grandi categorie: una parte continuerà, esasperandolo, il contenimento dei costi; l’altra parte deciderà di rischiare e di investire, anche sulle Risorse Umane. In questi giorni continuiamo a dire che uniti usciremo dal tunnel. Bene! Applichiamo questa teoria anche in azienda fra Direzione, impiegati e base operaia. Un nuovo patto di rilancio della vita aziendale e del suo futuro, un patto che ha bisogno di coinvolgimento autentico per essere perfezionato.

Ben venga lo sviluppo di tutte le leve motivazionali classiche e nuove. Bisogna però mettere mano una volta per tutte a una nuova responsabilizzazione dei capi, specie quelli intermedi. Insegniamo (o ricordiamo) loro che ascolto, feed back e magari qualche elogio di incoraggiamento sono aspetti importanti. Dopo la ripresa delle attività diamo impulso ai fatti (formazione, comunicazione interna, welfare, etc.) ma non dimentichiamo di dire “grazie” e “brava/o” ai nostri collaboratori, soprattutto in questi momenti difficili.

Perché sono pochi i “capi” che lo fanno!


#Comeusciredallacrisi #ilcontributodellesperto #noicisiamo #engagement

Se non ci fosse l’Europa

Europe
Photo By Sara Kurfess – Unsplash
Ospitiamo ancora con piacere una riflessione di Giuseppe Mazzei, giornalista, saggista, docente universitario e fondatore di MazzeiHub, società specializzata in lobbying, public affairs e political intelligence

Da più parti si levano lamenti contro quello che l’Europa sta facendo o non sta facendo in questa emergenza sanitaria ed economica.

Essi sono di tre tipi.

Ci sono quelli degli europeisti convinti che apprezzano le decisioni delle istituzioni europee ma chiedono che si amplifichino gli sforzi e che si colga questa occasione per individuare strumenti nuovi che comportino maggiore condivisione.

Ben altro tipo di lamentela è quella -incoerente- dei sovranisti: da un lato si oppongono a qualsiasi cessione di sovranità in nome della prevalenza dell’interesse nazionale, dall’altro chiedono interventi che presuppongono proprio il superamento del nazionalismo e la scelta di una maggiore integrazione. Tipico dei sovranisti è agitare i fantasmi della Troika, delle invasioni di campo da parte delle istituzioni europee proprio mentre invocano maggiori aiuti.

Infine, ci sono le lamentele di coloro che, per ignoranza, superficialità, malafede e pura demagogia non danno il giusto valore a quello che l’Europa sta attuando e considerano qualsiasi decisione europea un errore.

Bisogna ristabilire un minimo di verità in questa Babele e stare ai fatti.
Cominciamo con la Banca Centrale Europea. Inizialmente l’Istituto di Francoforte si era limitato ad ampliare il QE (Quantitative Easing) per il 2020 fino a 120 miliardi. Una misura che era apparsa da subito molto limitata. E così la BCE il 26 marzo ha varato un piano di acquisti di titoli per 750 miliardi di euro, definito PEEP (Pandemie Emergency Purchase Programme) eliminando due limiti: quello del 33% per gli acquisti dei titoli di stato su ciascuna emissione e quello del 50% per i titoli di debito emessi dagli organismi sovranazionali. Secondo alcuni esperti, l’eliminazione di questi limiti mette la BCE in condizioni di poter effettuare anche dei salvataggi. Infatti, se uno Stato chiedesse aiuto, il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) lo concederebbe emettendo dei titoli che la BCE potrebbe acquistare senza tener conto del limite del 50%.

Non era mai successo. I titoli che la BCE può acquistare hanno le scadenze più ampie possibili, fino a 30 anni.

Per l’Italia significa che almeno 215 miliardi dei nostri titoli di stato saranno riacquistati dalla BCE e questo dovrebbe stabilizzare gli spread.

Ma veniamo alle altre istituzioni europee.
L’Europa ha finora messo in campo 540 miliardi: 200 per investimenti della BEI, 100 per il piano SURE per gli ammortizzatori sociali e 240 del MES, crediti destinati per sostenere i soli costi sanitari diretti e indiretti, la cura e la prevenzione, e senza essere condizionate alle abituali drastiche misure di austerità previste dal fondo. Sull’eliminazione di queste clausole draconiane l’Italia, insieme ad altri 13 Paesi dell’Eurozona, l’ha spuntata, checché ne dicano Salvini e Meloni.
Per l’Italia si tratta di poter accedere a 96 miliardi di crediti, sui 540 complessivi messi a disposizione dall’Europa, così divisi: 40 miliardi dalla BEI da restituire in 30 anni, 20 miliardi da SURE , da restituire in 10 anni, e 36 dal MES da restituire senza condizioni a tassi molto più bassi (fino al 50% in meno) rispetto a quelli che paghiamo per i nostri titoli di Stato, con un risparmio di oltre 1 miliardo di euro.
96 miliardi sono poco più di 6 punti di PIL, esattamente quelli che mediamente potremmo perdere da qui a fine anno , nella migliore delle ipotesi.
Peraltro questi crediti del MES rientrano nella categoria delle ECCL (Enhanced Conditions Credit Lines) che sono la condizione necessaria -anche se non sufficiente- affinché la Banca Centrale Europea possa attivare lo strumento più potente di cui dispone e che -predisposto da Draghi nel 2012- non è mai stato utilizzato. Si tratta delle OMT (Outright Monetray Transactions) che consente alla BCE di acquistare titoli sul mercato secondario, soprattutto titoli di Stato, senza limiti quantitativi prefissati. Le OMT per loro natura scoraggiano qualsiasi manovra speculativa proprio perché garantendo un acquisto potenzialmente illimitato, evitano che il Paese i cui titoli vengono acquistati subisca una pressione al rialzo dei rendimenti richiesti.
Al momento non conosciamo i dettagli tecnici dell’accordo raggiunto nell’Eurogruppo per quanto riguarda il concreto funzionamento di questa linea di credito vincolata alla copertura di spese per l’emergenza sanitaria.
Ma si può ragionevolmente ritenere, sulla base del comunicato ufficiale dei ministri delle finanze dei 19 Paesi dell’area euro, che non ci siano trucchi o trappole che possano far scattare meccanismi di intervento -tipo Troika- nei confronti dei Paesi che accederanno a questi finanziamenti.
E non è ancora finita. Perché il prossimo Consiglio Europeo dovrà mettere mano ad un altro strumento di finanziamento, forse il più massiccio, che dovrà servire ad aiutare tutti i 27 Paesi europei ad uscire dalla profonda recessione che sta già mostrando i segni della sua pericolosità.
Se passa la proposta della Francia sostenuta dall’Italia e da altri 13 Paesi dell’Eurozona si potrebbe dar vita ad un fondo di almeno 500 miliardi da finanziare con l’emissione di titoli comuni, limitata nel tempo e condizionata alle sole spese per contrastare la recessione. Forse non si chiameranno eurobond, o recovery bond, ma la sostanza è che ci sarà una condivisione temporanea dei debiti futuri per la ripresa. Se questo meccanismo non dovesse passare sicuramente si amplierà in maniera significativa il Bilancio pluriennale della Commissione Europea per mettere in campo altri 1000 miliardi di risorse. Vedremo.

Di fronte a questi dati, si può dire a cuore leggero che l’Europa non c’è e che essa è un fallimento?

Sì, se si fa un uso improprio del cervello.


#Comeusciredallacrisi #noicisiamo #ilcontributodellesperto

Cosa manca al bazooka di Conte

Italia vista dallo spazio
Fonte ESA/NASA

Oggi ospitiamo Giuseppe Mazzei, giornalista, saggista, docente universitario e fondatore di MazzeiHub, società specializzata in lobbying, public affairs e political intelligence.

Le decisioni del Governo per evitare il tracollo del sistema produttivo italiano non sono ancora definite nel dettaglio. Ma si può affermare che la poderosa iniezione di liquidità necessaria non c’è stata nella misura e nelle modalità che l’emergenza richiederebbe.

È vero che, complessivamente, il Governo si è impegnato a garantire 400 miliardi di crediti da parte delle banche e ad attivare flussi finanziari per altri 350 miliardi. Si tratta di 750 miliardi, uno stock pari al 41% del PIL. Non è poco. Ma non si tratta di liquidità ad effetto immediato. L’unica vera iniezione di liquidità diretta sono i 25 miliardi di spesa varati con il Cura Italia e gli altri 30 miliardi che a breve saranno stanziati.
Quindi, in sostanza, di denaro fresco immesso nel circuito ci saranno circa 55 miliardi. Per gli altri 750 bisognerà aspettare che si attivino le procedure, semplificate solo nel caso dei finanziamenti a zero interessi fino a 25mila euro.

È molto singolare che il Governo, dovendo deliberare per decreto su una manovra ingente non abbia fatto sedere intorno al tavolo di chi scrive queste norme anche i soggetti direttamente coinvolti, aziende e banche, che avrebbero potuto indicare procedure semplificate e modalità efficaci per evitare di ritrovarsi con il solito testo legislativo da interpretare e infarcito di pratiche burocratiche da rispettare che rallenteranno, e non di poco, l’accesso straordinario al credito da parte delle aziende.

Ma è proprio di denaro che arrivi subito che, soprattutto le piccole e medie aziende hanno bisogno.
Senza la possibilità di finanziarsi attraverso crediti garantiti dallo Stato ed erogati in pochi giorni dalle banche molte di queste aziende saranno costrette a chiudere e a non poter più riaprire.

E questo sarà un danno incalcolabile non solo dal punto di vista economico ma anche sociale.
Stavolta sarà ingiusto e servirà a poco dare la colpa alle banche.

Il Governo si è impelagato in un conflitto interno sulla gestione di questi crediti attraverso la SACE, società del gruppo CDP ma che dovrà -di fatto- rispondere non al suo azionista ma all’autorità politica del Tesoro. Questa decisione, al di là del braccio di ferro tra M5Stelle e Pd, ha comunque una importanza strategica.
Il Governo, infatti, deve assumersi la responsabilità politica non di fare favori a questo o quest’altro soggetto economico, ma di orientare attraverso la gestione dei crediti garantiti un’accorta politica industriale.

E qui si tocca un tasto dolente. L’Italia non ha mai avuto una politica industriale con priorità, strategie e un occhio vigile del Governo per consentire al sistema Paese di muoversi con coerenza, rafforzandosi nel suo complesso.
Ovviamente, questa terribile crisi fa saltare un po’ tutti gli schemi e non consente di avere la mente fredda per programmare con lucidità dove l’industria italiana debba andare.
Ma proprio l’esigenza di evitare un’ecatombe di piccole e medie imprese dovrebbe far capire al Governo che non solo deve far arrivare rapidamente crediti alle aziende ma deve anche “gestire” sia la fase del pronto intervento che quella della ripresa avendo un visione d’insieme.

Innanzitutto il Governo dovrebbe liberare da lacci e lacciuoli le aziende – non solo le piccole e medie – e consentire loro di operare con maggiore elasticità e libertà. Ma poi occorrerà guidare in qualche modo la ripresa realizzando politiche di settore che, senza configurarsi come aiuti di stato, di fatto raccordino le aziende che operano in comparti necessariamente interconnessi, creino supply-chain meglio organizzate, stimolino il reshoring di tante attività garantendo loro fiscalità di vantaggio.

Per fare questo il Governo potrebbe costituire una task force di alta consulenza che nelle prossime settimane prepari una strategia di ripresa coordinata, sia per evitare che affondino le aziende con maggiori potenzialità e rilievo strategico, sia per disegnare una ripresa non scoordinata ma finalizzata al rafforzamento complessivo del tessuto industriale italiano.


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Cambiamenti climatici: industria farmaceutica una risorsa indispensabile

pharma
In questo periodo stanno succedendo molte cose che impattano sui temi della responsabilità delle imprese e della sostenibilità del sistema della salute, non per ultima la questione che stiamo vivendo e che riguarda le conseguenze sociologiche, sociali ed economiche che derivano e deriveranno dalla diffusione del #COVID-19.
In questi mesi – anche attraverso il confronto con altri operatori del settore – abbiamo verificato che sta maturando una consapevolezza nuova di quello che è il ruolo dell’industria farmaceutica.
Il surriscaldamento globale impatta sulla mortalità e sulla qualità di vita in modo diretto, indiretto e trasversale. In generale è noto che molti degli effetti legati all’innalzamento della temperatura impattano direttamente su malattie cardiovascolari e respiratorie e sulla diffusione di specie e patogeni tropicali che trasmettono malattie e virus. Per non parlare dell’insieme degli interventi di trasformazione e alterazione degli spazi naturali che l’essere umano intraprende, che tra l’altro alcuni studi sospettano possa aver giocato un ruolo nel salto di specie che ha portato il Covid-19.
Contribuire alla ricerca e al contrasto delle cause che portano le malattie sta diventando un tema importante nella strategia di posizionamento dell’industria che si occupa della salute umana. Alcuni ambiti sono sicuramente più evidenti. Il legame tra inquinamento e malattie respiratorie è decisamente consolidato, ma non è il solo, in questi giorni ad esempio sta diventando importante anche il legame tra condizioni igieniche e integrità.
Mettere la persona al centro significa sicuramente cercare di mitigare l’impatto di quelle attività che incidono sulla salute delle persone, soprattutto per quelle fasce di popolazione più svantaggiata e più fragile, non solo in momenti di crisi.
Diventa importante comunicare in maniera adeguata concetti scientifici attraverso una divulgazione seria ed è fondamentale il contributo di chi, come l’impresa farmaceutica, può offrire un quadro chiaro in termini di ricerche e studi da una posizione autorevole e avvallata dall’esperienza.
Sarebbe importante – rispetto a una non sempre positiva reputazione dell’industria del farmaco – che questo settore si distinguesse anche per l’impegno in azioni più ampie legate non solo a produrre il farmaco ma a contribuire alla lotta e alla prevenzione delle cause delle patologie.

Cosa può fare il mondo della comunicazione per contribuire a stimolare nuovi comportamenti all’interno del mondo delle imprese del farma?

Ad esempio può affiancare le imprese in percorsi strutturati di coinvolgimento e di ingaggio. Uno degli strumenti più utili in questo senso è la creazione di sinergia tra stakeholder e impresa attraverso un’attività professionale di engagement che valorizzi il ruolo attivo delle persone. Dare voce ai pazienti e a tutti gli stakeholder di riferimento e renderli oltre che consapevoli anche partecipativi, attraverso l’ascolto, offre l’opportunità di evitare che rimangano solamente “utenti finali o inascoltati” ma diventino parte attiva della governance dell’impresa farmaceutica.
Il vero elemento distintivo è arrivare a una narrazione che faccia emergere il valore della partecipazione degli stakeholder ad alcune aree di sviluppo all’interno di quella che possiamo definire la “matrice di materialità” delle imprese farmaceutiche, uno strumento importante per identificare le priorità più rilevanti, coerentemente con la propria strategia di business e, sulla base dell’impostazione della SWOT analysis, delle aree di miglioramento da perseguire.


Chiappe Revello supporta le imprese farmaceutiche e di molti settori industriali in percorsi personalizzati di ricerca e coinvolgimento del pubblico sulla base delle reali esigenze del cliente. A questo bagaglio di esperienza si è unita l’importante partnership con Gallery Health, azienda con oltre dieci anni di specializzazione nella comunicazione del settore farmaceutico.

Per informazioni o approfondimenti:
Patrizia Petretto: p.petretto@chiapperevello.it
Paolo Levati: p.lev@galleryhealth.it

Sostenibilità e innovazione, ai tempi di #coronavirus, ma non solo

Innovation and crisis
Stiamo seguendo, come tutti, le evoluzioni dello scenario odierno: una crisi sanitaria senza precedenti che comporta una grande incertezza sul presente e avrà ripercussioni importanti e non del tutto prevedibili nel lungo periodo.

Ma la crisi che stiamo vivendo, come tutte le crisi, può rappresentare anche un’opportunità: molte imprese, spinte dal senso di responsabilità sociale e mosse dalla volontà di aiutare il Paese a superare questo momento, stanno riconvertendo la produzione attuale per fornire mascherine, protezioni individuali, soluzioni disinfettanti e respiratori agli ospedali che ne hanno bisogno, ai soggetti più esposti e al personale sanitario nazionale.

Ma non solo. La crisi innescata dal Coronavirus sta sostenendo e accelerando processi di rete e condivisione tra aziende, che moltiplicano i loro sforzi per rispondere alle esigenze attuali ma al contempo fondano nuovi network e potenziano, secondo un meccanismo virtuoso, le possibilità di ripresa della nostra economia, una volta che tutto questo sarà finalmente superato.

La riconversione che le aziende stanno affrontando, singolarmente o in nuovi network conoscitivi e produttivi, frutto di una necessità immediata e dirompente, è figlia dell’innovazione che contraddistingue molte delle nostre imprese nazionali: secondo il rapporto OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) 2019 sugli indicatori di innovazione il 52% delle imprese nostrane hanno fatto innovazione, risultato che coincide con quanto hanno fatto le piccole e medie imprese, mentre nelle grandi aziende la percentuale sale all’81%.

Tecnologia e innovazione, in tutte le sue declinazioni – di prodotto, di processo e di soluzioni – possono contribuire in questo momento a rispondere all’emergenza, ma si prefigurano anche come l’unica strada percorribile che consentirà alle nostre imprese non solo di sopravvivere in futuro, ma anche di crescere e contribuire a uno sviluppo sostenibile del nostro Paese, e del mondo intero.

Sostenibilità e innovazione sono, da sempre, due facce della stessa medaglia: per essere sostenibili dobbiamo innovare – e rinnovare – il nostro modo di pensare l’azienda e il rapporto con i suoi stakeholder, dobbiamo investire sullo sviluppo di processi, prodotti e soluzioni nuove, che consentano di produrre profitti, ma salvaguardando il territorio, l’ambiente e le comunità.

L’innovazione, anche quella tecnologica, consentirà in futuro di superare la dicotomia tra produzione e ambiente, tra imprese e società, tra uomo e natura, e condurrà verso un nuovo modello di sviluppo, più sostenibile, per tutti.

Previsioni per il rilancio e la tenuta dell’economia in Italia

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A cura del Centro Studi Confindustria

Le prospettive economiche, in questa fase di emergenza sanitaria, sono gravemente compromesse e non sono chiari i tempi di risalita, neppure sul piano dell’offerta.

Se la fase acuta dell’emergenza sanitaria si andrà esaurendo alla metà del secondo trimestre dell’anno la caduta stimata del PIL sarà del -10% per chiudere poi al -6% a fine anno. Nel caso in cui la situazione sanitaria non evolvesse positivamente, in una direzione compatibile con questo scenario, le previsioni economiche andrebbero riviste al ribasso.

Ogni settimana in più di blocco normativo delle attività produttive, secondo i parametri attuali, potrebbe costare una percentuale ulteriore di PIL dell’ordine di almeno lo 0,75%. I consumi delle famiglie, nella prima metà del 2020, risentiranno delle conseguenze dell’impossibilità di realizzare acquisti fuori casa, ad esclusione di alimentari e prodotti farmaceutici. Il totale della spesa privata risulterà decisamente inferiore rispetto a quello dell’anno scorso (-6,8%).

Gli investimenti delle imprese sono la componente del PIL più colpita nel 2020 (-10,6%) e questo a causa del calo della domanda, dell’aumento dell’incertezza, la chiusura del credito e le chiusure forzate dell’attività. Di conseguenza gli investimenti privati crolleranno nella prima metà di quest’anno. Anche l’export dell’Italia non viene risparmiato dal calo generale dell’attività economica (-5,1% nel 2020).

Ciò esercita una pressione senza precedenti sulla capacità di resilienza del nostro sistema produttivo ed in particolare sull’industria, da cui dipendono direttamente o indirettamente un terzo circa di tutti gli occupati nel nostro Paese e originano circa la metà delle spese in R&S e degli investimenti necessari ad aumentare il potenziale di crescita dell’economia.

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La tempesta perfetta

Tempesta perfetta
Photo by Matt Hardy – Unsplash
Intervista a Luigi Norsa: la comunicazione ai tempi del coronavirus

L’emergenza in atto è caratterizzata da una serie di incertezze che rendono la situazione molto complicata: l’elevatissimo grado di imprevedibilità dell’evoluzione degli scenari epidemiologici, la carenza di dati certi sulle caratteristiche attuali e future della patologia, un’ulteriore imprevedibilità sulle conseguenti scelte delle autorità – italiane e internazionali – e del loro possibile impatto a breve e medio-lungo termine per la vita delle persone e delle imprese.

Abbiamo chiesto a Luigi Norsa, nostro partner e collaboratore da moltissimi anni, quali sono le azioni che a suo parere le organizzazioni devono mettere in pratica in questo momento.

“La combinazione dell’altissima contagiosità con una letalità – contenuta seppur maggiore delle consuete epidemie influenzali – genera valori assoluti di contagiati e di decessi che generano grandi preoccupazioni”, questa è la prima considerazione che condividiamo con lui.

Esiste peraltro in parallelo un grande problema per la stessa sopravvivenza di molte imprese, sei d’accordo?

“Sì – risponde Luigi – abbiamo sicuramente un problema di business continuity delle produzioni, sia ascrivibile all’imprevedibile evoluzione della morbilità con calo di disponibilità risorse umane critiche, sia ascrivibile al potenziale numero di persone affette da sintomi che impediscono l’attività, sia al più elevato numero di asintomatici o con sintomi lievi, ma in quarantena obbligatoria, con in aggiunta i problemi di continuità delle movimentazioni di materiali – sia materie prime che prodotti finiti – e di interventi manutentivi”.

L’emergenza sanitaria quindi per le aziende pone problemi di impatto economico finanziario e di cash flow e quindi bisogna gestire la comunicazione a tutto tondo, in modo responsabile e proattivo

“Questa situazione di perduranti incertezze – ribadisce Norsa – implica la necessità di gestire la comunicazione diretta con le varie categorie di stakeholder – dipendenti, rappresentanze sindacali, clienti, sistema distributivo, fornitori, stakeholder finanziari, consumatori – nonché eventualmente con i media”.

Come dovrebbero muoversi oggi le imprese in questo contesto, in termini di comunicazione?

“In termini generali, fatto salvo le specifiche situazioni di singole aziende – risponde – intanto è necessario individuare le specifiche criticità e gestire i vari scenari possibili, che possono essere sintetizzati in:

  • business as usual, come l’azienda – in assenza di casi che coinvolgano suoi dipendenti – gestisce la situazione e si è preparata ai suoi possibili sviluppi, garantendo la continuità della fornitura di prodotti e servizi
  • casi isolati sospetti o confermati di dipendenti infettati da coronavirus
  • richieste sindacali di ridurre molto l’operatività o di interromperla a fini precauzionali
  • interruzione dell’attività di una unità produttiva, per compliance a disposizioni delle autorità o a seguito di casi che lo impongano per la tutela dei lavoratori

Per ogni di questi scenari è poi necessario predisporre messaggi chiave, posizione aziendale, documento domande e risposte e varie comunicazioni (via mail) alle categorie di interlocutori.È poi scontato che sia necessario un attento monitoraggio offline e online dei media e dei canali social”.


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