Oggi ospitiamo il contributo di Stefano Ghibellini, giuslavorista e associato senior presso lo Studio Legale Ghibellini, consolidata realtà nel panorama giuridico italiano con oltre un secolo di storia alle spalle.
La riapertura dei luoghi di lavoro a seguito del termine della fase del lockdown, ha posto il problema della responsabilità dei datori di lavoro nell’ipotesi di contagio di un dipendente nello svolgimento dell’attività lavorativa.
A tale proposito si rende necessario analizzare gli strumenti adottati dal Governo durante la fase di emergenza e, più in generale, la normativa in materia di sicurezza sul lavoro.
Ai fini del contenimento della pandemia da Covid-19 sui luoghi di lavoro, in data 14 marzo e 24 aprile 2020, le parti sociali, tra cui Confindustria, hanno sottoscritto, d’intesa con il Governo, due protocolli condivisi di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro. Gli stessi protocolli sono stati quindi resi obbligatori, per tutta la durata della pandemia, rispettivamente, con i Dpcm del 10 aprile e del 26 aprile 2020, per le imprese le cui attività non fossero sospese durante il lockdown, e con dpcm del 18 maggio 2020 per tutte le attività che avrebbero potuto riprendere nell’attuale Fase 2.
Tali protocolli prevedono disposizioni in materia di obblighi di informazione, distanze di sicurezza, sanificazione degli ambienti, regolamentazione degli accessi in azienda, strumenti di protezione individuale, gestione degli spazi comuni, nonché trattamenti dei sintomatici in azienda e regole sugli spostamenti interni e sullo svolgimento delle riunioni.
Il datore di lavoro è quindi tenuto ad adottare misure precauzionali (protocolli), che devono essere preceduti da una valutazione dei rischi da contagio in azienda e prevedere misure di contenimento del rischio conformi alla normativa e parametrate alle peculiarità dell’impresa.
I protocolli costituiscono, di fatto, una integrazione del documento di valutazione dei rischi (DVR), che dovranno essere aggiornati anche formalmente con richiamo alle valutazioni di rischio da contagio ed ai protocolli assunti (ovvero indicando in questi ultimi che vanno ad integrare il DVR e allegandoli al medesimo).
Tali regole vanno ad aggiungersi a quelle stabilite dalla normativa in materia di sicurezza sul lavoro e, in particolare a quanto stabilito dall’art. 2087 del codice civile. In base a tale articolo “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro”. Quest’ultima disposizione costituisce una norma di chiusura del sistema civilistico in relazione agli infortuni sul lavoro, che obbliga il datore di lavoro a tutelare l’integrità psico-fisica dei propri dipendenti imponendogli l’adozione di tutte le misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione del bene alla salute nell’ambiente e in costanza di lavoro anche quando faccia difetto la previsione normativa di una specifica misura preventiva o risultino insufficienti o inadeguate le misure previste dalla normativa speciale. A tale responsabilità civilistica si può aggiungere, laddove ne ricorrano i presupposti, quella penale per le ipotesi in cui si possano configurare i reati di lesioni o di omicidio o ancora quella amministrativa dell’ente qualora l’infortunio sia avvenuto con violazione delle norme antinfortunistiche.
Nel caso di infezione contratta nello svolgimento dell’attività lavorativa occorre fare riferimento all’art. 42 comma 2 del Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 cd. “Decreto Cura Italia”, secondo cui l’infezione da coronavirus rientra nell’alveo delle malattie infettive e parassitarie e, come tale, è senza dubbio meritevole di copertura Inail per gli assicurati che la contraggono “in occasione di lavoro”.
Tale disposizione in materia di assicurazione obbligatoria in capo ai dipendenti contagiati in occasione dell’attività lavorativa, a causa della propria vaghezza, ha suscitato molte perplessità da parte dei datori di lavoro per i possibili risvolti civili e/o penalistici legati ad accertamenti di responsabilità dell’azienda nel caso di contagio del lavoratore.
A tale proposito si è reso necessario un primo intervento interpretativo dell’INAIL che, con circolare esplicativa n. 23 del 3 aprile 2020 ha inquadrato l’infezione da Covid 19 nell’ambito della disciplina degli infortuni sul lavoro. Ciò nonostante non è stata chiarita la portata della norma rispetto alla posizione del datore di lavoro come soggetto garante della sicurezza dei dipendenti.
La mancanza di chiarezza sul punto ha dato origine ad un dibattito sulla possibile interpretazione della norma la quale, a parere di alcuni, avrebbe comportato una responsabilità oggettiva del datore di lavoro nel caso in cui un dipendente avesse contratto il virus durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, e con ciò ponendo in capo all’azienda una difficilissima prova liberatoria.
Con circolare n. 22 del 20 maggio 2020, l’INAIL è nuovamente intervenuta al fine di chiarire i termini della tutela infortunistica da Covid-19 ed i risvolti che questa comporta in tema di responsabilità del datore di lavoro. Nella circolare si stabilisce che il riconoscimento dell’origine professionale del contagio non ha alcuna correlazione con i profili di responsabilità civile e penale del datore di lavoro, che è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche.
I presupposti per la responsabilità penale e civile del datore di lavoro devono essere rigorosamente accertati con criteri differenti rispetto a quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative. Il dipendente che ha contratto il virus avrà, dunque, l’onere di provare l’esistenza del nesso di causalità tra evento e condotta datoriale nonché l’imputabilità a titolo di dolo o colpa della condotta tenuta dal datore di lavoro.
L’INAIL ha inoltre chiarito come dalle disposizioni citate non possa desumersi un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a “rischio zero”, quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile.
Nella circolare si richiama l’orientamento della Corte di Cassazione secondo cui l’articolo 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore.
Da ciò ne consegue che il datore di lavoro sarà responsabile soltanto in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del decreto legge 16 maggio 2020, n.33.